CLICCA LA COPERTINA E ACQUISTA
|
Commento a cura di Maria Rizzi
Mi trovo a commentare la nuova Opera dell’amico Poeta Nicola Zambetti “La checcine de mèste Coline e jalde angore” e desidero partire dal commento dell’autore in quarta di copertina. Egli scrive : “ Vivere al buio mi spaventa. Ma non il buio inerente il mio handicap. Quello al quale, ormai, sono abituato e con il quale, da una vita convivo e che mi rende fiero di esserlo, perché mi impedisce di vedere tutto il marcio che mi circonda e mi dà la facoltà di valutare il prossimo, non per il suo aspetto fisico, ma per quello interiore. Quello che mi spaventa è il buio delle istituzioni”. Nicola, pur cimentandosi in un testo di liriche, non esita a esprimere la propria amarezza per la situazione che ci troviamo a vivere e mette in dura e dolce contrapposizione la sua condizione personale con il buio pesto di un tempo che ci vede privi di progettualità, legati al ‘qui e ora’, incapaci di concepire ideali e di trasmetterli alle nuove generazioni. Il mio plauso va poi alla dottoressa Anna Sciacovelli, autrice di una prefazione che è vibrante, vera, completa e che lascia poco spazio a chi, come me, vuole inserirsi con le proprie umili parole. La dottoressa Anna, conterranea dell’Autore, sottolinea tutte le sfumature di questa silloge coraggiosa, nella quale il nostro Nicola sceglie di esprimersi con la lingua della sua terra, portando avanti una crociata a favore dei dialetti in genere e di quello barese in particolare. Precisa che è stato definito dai denigratori “ostrogota”, per la non facile assimilabilità, ma in realtà possiede la dignità e la forza delle più importanti forme vernacolari italiane. Io non posso che ringraziare l’autore e la sua prefatrice per tanto elogio, in quanto, figlia di un padre nato nella provincia di Bari, per l’esattezza a Corato, sono cresciuta sentendo scorrere nelle vene sangue pugliese misto a quello napoletano. E il dialetto barese, con le sue vocali chiuse e le consonanti che si sciolgono come il mare che lambisce la città, possiede una musicalità indiscutibile. Le liriche di Nicola Zambetti che sembrano nelle prime pagine del testo, dedicate alle ricette care all’artista, possiedono un ritmo, un colore, un’armonia che incantano. Basta citare “U risotte” – Il risotto: “Nu vrennerdi ca m’aveve scucciàte / de mangià sembe u sughe cu ciambòtte, / me venì ngàpe de fa u risotte”- “Un venerdi che mi ero scocciato/ di mangiare sempre il sugo con il ciambotto, / mi venne l’idea di fare il risotto…” è lingua snella, che ha l’andatura leggera di una ballerina e per le ricette sembra parte integrante del condimento. Il nostro Autore, ovviamente, non si limita a dilettarsi nell’arte della cucina, con la levità che lo caratterizza e che ne fa un artista di spessore, si avvicina a tematiche diverse, intimistiche e sociali. Nella seconda parte della silloge, intitolata “E jalde angore”- E altro ancora- entra in punta di piedi nel campo minato della nostalgia e compone versi toccanti, che lacerano l’anima. Cito “Chiànde andiche”- Pianto antico- una lunga, sommessa meditazione sul tempo andato. “Me si lassate assule / Jinde a cusse viche./ E mô…/ a ci u conde?/ E mô…/ a ci u digghe? / E … aspette!/ E… aspette!”- Mi hai lasciato solo/ dentro a questo vico./ E adesso… / a chi lo racconto?/ E adesso…/ a chi lo dico?/ E… aspetto!/ E …aspetto!/ - Altrettanto lievi e intensi, al tempo stesso, i ricordi, in fila come le perle di una cara collana, della Festa nel giorno della Candelora (“Ié festa granne”), delle figure di spicco della sua gioventù: la madre, il Monsignore, la nonna. Nicola ha già dato prova nei precedenti suoi libri di possedere il dono di tratteggiare i luoghi, visti fino all’età di cinquant’anni, ovvero fino a prima di subire il danno irreversibile alla vista, e conservati nitidi nei paesaggi della memoria. Anche in questo libro dall’impianto strutturale nuovo e originalissimo, torna ad affrescare le piazze, le vie… cito “Chiazz’Umberte” – Piazza Umberto - , “Via Spàrane”- Via Sparano- e a tratteggiare i personaggi di spicco che era solito incontrare: “La vecchiarèdde”- La vecchietta- “La segnure de mezze’o corse”- La signora di corso Vittorio Emanuele -. Il suo excursus ci accompagna attraverso un viaggio, nel corso del quale le parole scritte in dialetto iniziano di colpo a sgocciolare nei nostri pensieri, a divenirne parte viva, palpitante. Mi sono chiesta se una simile raccolta di liriche avrebbe donato le stesse emozioni se fosse stata composta in lingua e ho saputo rispondermi subito che non avrebbe posseduto quel carattere di voce dal ritmo ipnotico, capace di immergere in uno stato tra la tenerezza e l’oblio. Lo stile, grazie all’adozione del dialetto, si arricchisce di suggestioni, di ondate immaginifiche e diviene tramite sublime per le emozioni di Nicola. Non posso ultimare il mio commento all’Opera in versi del caro amico barese senza sottolineare la veste grafica del testo e la straordinaria immagine di copertina, ricavata da una foto dello stesso autore. Un cammeo… Maria Rizzi |